La Suprema Corte ha stabilito che per le offese sui social la competenza non è del giudice di pace ma del tribunale, dove il reato è punito con la reclusione fino a tre anni
La Cassazione ha deciso: rischia il carcere chi denigra e offende su Facebook. All’origine della sentenza, la burrascosa separazione di una coppia, in particolare gli insulti postati sul social network dall’ex marito nei confronti dell’ex moglie. Ne è nato un processo per diffamazione con rimpallo tra giudice di pace e tribunale: una questione non di poco conto per gli attaccabrighe del web, perché mentre il primo applica soltanto sanzioni pecuniarie, l’altro può anche infliggere il carcere. Per la precisione, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni.
Il nodo della pubblicità
Il processo all’inizio era stato incardinato davanti al giudice di pace di Roma, che ha dichiarato la sua incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità e quindi di competenza del tribunale. Ma qui il collegio ha accolto le argomentazioni dell’avvocato dell’ex marito, Gianluca Arrighi, stabilendo che Fb non può essere paragonato a un blog o a un quotidiano online, visionabile da chiunque sulla rete, e che pertanto la competenza è del giudice di pace. Gli atti, di conseguenza, sono stati trasmessi alla Corte Suprema per la risoluzione del conflitto.
Il rischio carcere
Gli ermellini, dopo una lunga camera di consiglio, hanno invece deciso, in via definitiva, che la diffamazione su Facebook deve essere considerata aggravata dal mezzo della pubblicità e che pertanto la pena da applicare può essere il carcere. «È una sentenza che non condivido – commenta Arrighi – ma che ovviamente rispetto. Rimane il dubbio che nei processi per reati commessi su internet sfuggano ancora, talvolta, le reali dinamiche della rete. Soltanto quando leggeremo le motivazioni sapremo qual è stato il percorso logico giuridico seguito dalla Cassazione».
FONTE: Lavinia Di Gianvito (corriere.it)
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