L’avanzata della catena Tiger: oggetti di design ma a basso costo
Il gruppo è nato nel 1995. A tirare su la serranda in Israel’s Square
a Copenhagen c’era il fondatore Lennart Lajboschitz. Il riferimento al
low cost era scritto nel nome: Tiger, infatti, richiama il termine
danese Tier, che in slang indica una moneta da 10 corone, poco più di un
euro. Mescolando stile e scontrini leggerissimi Lajboschitz ha
trasformato la piccola società in un gruppo globale, presente in 25
Paesi con 427 punti vendita.
Quattro anni fa, appena sbarcata nel nostro Paese, qualcuno l’ha
presa per uno dei famosi «Millelire» che, negli Anni 90, spuntavano come
funghi: sbagliava, perché le rivendite di Tiger si sono dimostrate
molto di più. Gli inglesi, migliori di noi nelle definizioni, parlano di
«posh pound shop»: negozi da una sterlina, ma eleganti. Tiger è il
capofila, ma sul mercato si stanno affacciando in molti, a partire dal
bazar spagnolo Ale Hop. Nello scacchiere del gruppo danese l’Italia è
un caso a sè. «Siamo partiti da Torino nell’aprile del 2011: la risposta
è stata sorprendente, oggi l’Italia è il secondo mercato nel mondo. Il
primo, ovviamente, è la Danimarca», dice Javier Gomez, ad di Tiger
Italia 1, la divisione che raggruppa i punti vendita del Nord. Sono 31,
nel 2015 se ne aggiungerà una decina. Lo scorso anno Tiger 1 ha
fatturato 32 milioni di euro e per questo stima una crescita del 4%.
Dietro alla fiammata, almeno all’inizio, ha giocato un ruolo chiave la
scarsissima concorrenza. «Nel resto del continente esistono realtà
simili alla nostra, qui no- ragiona l’ad -. Nelle vie dello shopping il
98% dei negozi vende scarpe o abbigliamento». Qualcosa sta cambiando:
Ikea aprirà un temporary store nell’ex showroom della maison della moda
«Piazza Sempione» nel centro di Milano.
«Si va da Tiger per fare due passi nell’inaspettato: ecco perché ha
così successo», racconta Gianluca Diegoli, consulente, docenze a Ca’
Foscari e all’Università di San Marino. In realtà, spiega il professore
Luca Pellegrini, ordinario di marketing alla Iulm, i motivi potrebbero
essere più profondi. «Il ceto medio, negli ultimi anni, ha perso colpi:
acquistando low cost si sente di nuovo ricco». Soprattutto se compra
oggetti che, di norma, sarebbero considerati superflui: chi uscirebbe di
casa per rientrare carico di spade giocattolo, shampoo, occhiali da
lettura e, magari, un cd jazz? «Perfino chi frequenta negozi di alto
livello considera un giro da Tiger non “squalificante” per il suo status
- dice Diegoli -. L’ironia vince. “Ho comprato quel gadget perché è
introvabile altrove”, non perché costa poco». A Genova è nato anche
Tiger Spot, spazio-caffetteria che ospita concerti ed eventi. Tiger,
infatti, punta tutto sull’atmosfera dei suoi negozi e su prezzi tondi:
1, 2, 3, 5, 20 euro. È il minimo comune denominatore di altri big, da
Zara ad H&M e Cos fino a Carpisa e Decathlon. «Il cliente non compra
un valore tecnico, ma un valore percepito» dice il presidente di
Assolowcost Andrea Cinosi: lo stile dell’abbigliamento spagnolo, la
freschezza degli svedesi, la cura per i dettagli di Muji. «Ognuno ha
puntato sulle sue qualità e tagliato il superfluo - spiega -. La fase
della diffidenza è finita: i consumatori hanno sperimentato il low cost,
e ora si fidano».
FONTE: Giuseppe Bottero (lastampa.it)
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