sabato 4 aprile 2015

Allerta jihad, in Italia già 30 espulsi

L’ultimo caso a Imola, rimpatriato un marocchino di 41 anni: era vicino ad ambienti integralisti

Già coinvolto in passato in inchieste riguardanti l’estremismo di matrice islamica, faceva parte della rete di un terrorista condannato in Italia, espulso dal nostro paese e rimpatriato in Tunisia: Khalid Smina, un marocchino di 41 anni che viveva ad Imola con moglie, figli e regolare permesso di soggiorno, è stato rimpatriato questa mattina con un provvedimento di espulsione firmato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. 

Si tratta del 30esimo soggetto espulso dal dicembre scorso per motivi legati alla sicurezza dello Stato grazie, ha detto il ministro, «al lavoro capillare» delle forze di polizia impegnate sul fronte dell’antiterrorismo. È stato lo stesso titolare del Viminale a render nota l’espulsione. L’uomo, infatti, «aveva aderito ad una pratica integralista della religione, con una vocazione al terrorismo». 

Prima di essere allontanato dall’Italia, Smina, che frequentava la Casa della cultura islamica di Imola pur non facendo parte del direttivo, è stato monitorato per diverso tempo dagli uomini della Digos e dell’Antiterrorismo, che hanno tenuto sotto controllo i suoi contatti e le sue frequentazioni, sia all’interno che all’esterno della comunità islamica. E Shina, secondo quanto si apprende, era molto attivo anche in rete, dove frequentava siti e chat di ispirazione jihadista. Ma il suo nome non era sconosciuto agli investigatori tanto che sia nel 2009 sia nel 2011 fu oggetto di indagini, sempre legate all’integralismo ed al terrorismo assieme ad altri suoi compagni. 

Ed infatti l’elemento che più ha pesato sulla decisione di espellerlo dall’Italia per motivi di sicurezza, sarebbe stato proprio il suo legame con una vecchia conoscenza delle autorità italiane: Jarraya Khalil, un tunisino condannato nel nostro paese per associazione a delinquere con finalità di terrorismo nel 2008 e successivamente espulso. 

Oggi 46enne, Jarraya viveva a Faenza con la moglie ed i figli. Lo chiamavano «il colonnello» perché aveva combattuto con i mujaheddin bosniaci durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Jarraya fu arrestato una prima volta nel 1999 dal Ros a Sarajevo, dove il suo ruolo era quello di fornire supporto logistico ai fondamentalisti islamici diretti in Iraq e Afghanistan. Secondo le indagini era in contatto con diverse cellule in Gran Bretagna, Spagna, Germania, Francia, Belgio. Un nuovo mandato di cattura lo raggiunge nel 2008, quando venne arrestato perché considerato a capo di una cellula operante in Emilia, che aspirava al martirio nei teatri di guerra. «Avevano creato - scrisse il gip nell’ordinanza d’arresto - una rete di addestramento al suicidio che avrebbe dovuto tradursi in atti di violenza e sabotaggio contro strutture e persone, civili e militari occidentali presenti in Iraq e Afghanistan». Dopo la condanna in appello a 7 anni e due mesi, Jarraya è stato espulso dall’Italia ed è tornato in Tunisia. Dove, secondo alcune fonti, avrebbe ripreso il suo ruolo di `appoggio´ agli estremisti tanto che nei giorni dell’attentato al museo del Bardo sono circolate voci, non confermate ufficialmente, di un suo ruolo. 

«Questa vicenda avrà per noi un impatto molto negativo», ha commentato il vicepresidente dalla Casa della cultura islamica di Imola, Tajiri Abdelghani, annunciando che chiederà «di avere nel giro di pochissimi giorni un incontro con il prefetto di Bologna: noi stessi cerchiamo la massima chiarezza, poiché ci consideriamo una componente vitale di questo Paese».

FONTE: lastampa.it

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