SÌ, A VOLTE nevica in aprile. “Sometimes it snows in april”, cantava alla fine dell’album “Parade”, 1986. Cantava in una dolce ballata che «a volte nevica, in aprile, a volte mi sento così male. A volte vorrei che la vita non finisse mai: tutte le cose buone, dicono, non durano». È durata 57 anni la vita di Prince. La notizia della sua morte, annunciata da Tmz (come già successe con lo scoop della improvvisa scomparsa dell’altro genio black anni Ottanta, Michael Jackson), e ancora avvolta nel giallo, è arrivata ieri sera verso le 19 ora italiana.
ERA NATO a Minneapolis il 7 giugno 1958 ed è morto lì, Roger Nelson in arte Prince, oltre 40 album in carriera, nella sua città, nei suoi studi musicali - la dimora e il suo regno, una struttura di rettangoloni bianchi, Paisley Park. Nel ’96 Paisley Park fu teatro della presentazione internazionale di un suo triplo cd, “Emancipation”, il primo targato Emi dopo gli anni di “schiavitù” - così la soffriva lui, tanto dall’esibirsi con la scritta “slave” in faccia - sotto un’altra multinazionale discografica, la Warner Bros. Il ’96 fu l’anno in cui la compagna di allora, la moglie Mayte Garcia, dette alla luce il suo primo figlio; i giorni di quel lancio superstar erano gli stessi in cui il piccolo nasceva e in cui i genitori venivano a sapere che il cervello del neonato era quadrilobato (rarissima sindrome di Pfeiffer), che il bambino era gravissimo, e infatti il bambino morì di lì a poco. Prince incontrò lo stesso i giornalisti e, vestito di seta bianca, suonò lo stesso uno dei suoi concerti stratosferici, perché Prince dal vivo è sempre stato un’altra dimensione, uno degli spettacoli più eccezionali della storia del rock. Se con i dischi (e coi film fra il trash e il sublime cui erano legati) all’inizio degli anni Ottanta aveva fatto gridare al miracolo funky rock, dal vivo Prince era persino di più: piccolo piccolo sui tacchi alti, magrissimo, era un ballerino prodigioso, era l’erede diretto di James Brown, ma più bello. Un Marvin Gaye più maturo. Uno che Miles Davis paragonava a Duke Ellington. Con la differenza che Prince cantava tutti i suoi successi e schitarrava pure alla Hendrixcome un demonio, cantava insieme come un angelo del falsetto e come un mago tentatore, suonando piano e tastiere. Mimando l’amore con la chitarra e contemporaneamente con tutto il pubblico: Love, Sexy. E questo sempre: se la carriera discografica è andata avanti fra alti e bassi, scelte audaci ma premature (come quella di affrancarsi dalla discografia ufficiale per buttarsi su internet quando ancora la rete era agli albori commerciali), opere che spesso negli anni hanno sofferto d’ipertrofia, modello Orson Welles e genialità barocche quanto perennemente incompiute, la carriera concertistica ha sempre mantenuto standard stellari.
IN ITALIA arrivò la prima volta col tour di “Sign o’ the Times”, a Milano. Il concerto perfetto. 1987, quattro date a giugno all’allora Palatrussardi. Il pubblico era invitato a prender parte allo show con abiti neri e arancioni; sul palco, alla batteria Sheila E, a ballare Cat. Da quel palco esplosero una ventina di canzoni, una dietro l’altra, un tripudio d’improvvisazioni funk e jazz, semi-infinite code orgasmatiche di note tirate allo spasimo. Tanto il compagno di trionfi anni ’80 Michael Jackson era perfezione pop, tanto lui era storia e futuro profondamente - selvaggiamente - black. Nel finale si inanellavano “When the doves cry” (quando le colombe piangono), “Purple Rain” (pioggia porpora), “Kiss” ma era sul crescendo di “The Cross” che s’infiammava l’apocalisse psichedelica.
DA FINE ANNI Novanta, nessuno lo diceva ma in molti lo pensavano, sembrava fuori di testa: tutti i nomi che si dava e si toglieva (Tafkap, The Artist, The Symbol), poi soprattutto quel suo essere artefice e vittima della sua personale guerra all’industria musicale - di album nella carriera ne ha venduti 80 milioni -, e la conversione al credo dei testimoni di Geova, e i pettegolezzi più strani sulla sua vita privata, segnata comunque costantemente da tantissimi flirt (Vanity, Apollonia, la seconda moglie italo canadese Manuela Testotini da cui ha divorziato due anni fa, Kim Basinger). In realtà quando lo ritrovavi in concerto era sempre lui, sempre l’inarrivabile festa, quella che solo Prince sapeva celebrare con sapienza, istrionismo, romanticismo, energia. E proprio a fronte di tutta quell’energia che spendeva per noi, fa impressione pensare che se n’è già andato, così. In un giorno d’aprile in cui, all’improvviso, è nevicato sul cuore del rock.
FONTE: Chiara Di Clemente (quotidiano.net)
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