venerdì 21 giugno 2013

L’Italia è maglia nera per la giustizia Processi lumaca, 8 anni la durata media


L’Italia è maglia nera tra i Paesi dell’Ocse per la durata del processo civile: nel 2010 si sono impiegati 564 giorni per il primo grado, contro una media di 240 giorni e i 107 giorni del Giappone, che ha invece la giustizia civile più veloce del mondo. Lo indica il rapporto Ocse «Giustizia civile: come promuovere l’efficienza», presentato stamane in Senato. 
L’Italia è maglia nera tra i Paesi dell’Ocse per la durata del processo civile: nel 2010 si sono impiegati 564 giorni per il primo grado, contro una media di 240 giorni e i 107 giorni del Giappone, che ha invece la giustizia civile più veloce del mondo. Lo indica il rapporto Ocse «Giustizia civile: come promuovere l’efficienza», presentato stamane in Senato. 

Il tempo medio stimato per la conclusione di un procedimento nei tre gradi di giudizio è di 788 giorni. Con un minimo di 368 in Svizzera e un massimo di quasi 8 anni in Italia. Questo nonostante si tratti di due Paesi, evidenzia l’Ocse, che destinano al sistema giudiziario la stessa quota di Pil, lo 0,2%.
«Pur con le cautele dovute a differenze nei sistemi legali e nell’organizzazione delle statistiche giudiziarie nei diversi paesi - si legge nello studio, che è basato su numeri della banca dati Ocse e della Commissione Europea per l’efficienza della giustizia - i confronti internazionali evidenziano un’ampia variabilità nella durata dei procedimenti». Lo studio sottolinea anche che la durata dei procedimenti incide sul grado di fiducia dei cittadini nei confronti del sistema giustizia: «Un aumento della durata dei procedimenti del 10 per cento è associato a una riduzione di circa 2 punti percentuali della probabilità che un soggetto dichiari di avere fiducia nel sistema giudiziario».


La durata record non dipende però dagli scarsi investimenti, ma dall’inefficienza. In pratica l’Italia spende male le risorse che impegna sulla giustizia civile, che pure equivalgono a quelle dei paese capofila sull’efficienza dei tempi dei processi.L’Italia, si legge, spende all’incirca lo 0,2 per cento del sul Pil per i bilanci dei tribunali, esattamente come Svizzera, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca. Ma mentre in Svizzera e Repubblica Ceca in media un giudizio civile di primo grado richiede 130 giorni, in Italia ci vuole “il quadruplo”, avverte l’Ocse, e nella Repubblica Slovacca 2,7 volte. Una inefficienza quindi che non deriva dai fondi spesi sulla giustizia, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: «Non vi sono legami apparenti tra la spesa pubblica totale per la giustizia, quale percentuale del Pil, e la performance dei sistemi giudiziari in base ai dati raccolti - recita lo studio -: paesi con livelli di spesa simili mostrano lunghezze dei processi molto differenti».

FONTE: lastampa.it

giovedì 20 giugno 2013

Sardegna: le autorità amministrative isolane chiedono l'Istituzione della zona franca.



Il 24 giugno p.v. il Presidente della Regione Sardegna Ugo Cappellacci con tutti i sindaci e le associazioni e movimenti pro zona franca Integrale della Sardegna, saranno presenti in massa nella piazza del Quirinale in Roma alle ore 11,00 per manifestare al Governo Italiano la volontà di voler applicare la Zona Franca in tutto il territorio della Sardegna.
Lo stesso giorno il presidente della Regione Sardegna con i sindaci Sardi, incontreranno il Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta e il ministro dell' Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni.


Il relativo comunicato stampa pubblicato sopra è firmato dal Presidente dell'Associazione Sardegna Zona Franca (Cau Italia)


FONTE: Associazione Sardegna Zona Franca - Via Campidano n° 59/A - 09094 - Marrubia
              tel/fax: 0783858255 cell. 3400845845  Email:  cauitalia@gmail.com

martedì 18 giugno 2013

Nsa difende il programma-spia Prism. "Dall'11 Settembre sventati 50 attentati"


Con il caso "datagate" che continua a produrre nuove rivelazioni, il generale Keith Alexander, capo della National Security Agency, parla alla Commissione Intelligence del Congresso. "Volevano colpire la metropolitana di New York e Wall Street"

Grazie a Prism, il programma di sorveglianza che ha scatenato il "datagate" dopo le rivelazioni di Edward Snowden, dall'11 settembre 2001 sono stati sventati oltre 50 complotti terroristici contro gli Stati Uniti. Lo ha affermato il capo della National Security Agency, generale Keith Alexander, nel corso di un'audizione alla Commissione Intelligence del Congresso Usa.

"Negli ultimi anni simili programmi, oltre alle altre attività di intelligence, hanno protetto gli Stati Uniti e i loro alleati da minacce terroristiche in tutto il mondo. Dopo l'11 Settembre sono stati prevenuti oltre 50 potenziali eventi terroristici", le parole di Alexander, che ha assicurato alla Commissione la fornitura di documenti classificati su quelle minacce terroristiche domani, di modo che l'organismo del Congresso possa visionarli.

Nella seduta in corso, Alexander si è detto pronto a discutere subito di due casi di complotto sventati: uno alla metropolitana e uno a Wall Street, dove si trova il New York Stock Exchange, sede della borsa.

"Questi programmi - ha aggiunto il generale - aiutano l'intelligence a unire i punti. Sono fondamentali per proteggere il nostro Paese e garantire la nostra sicurezza. Si tratta inoltre di programmi limitati, mirati e soggetti a rigorosa vigilanza. Privacy e libertà civili dei cittadini sono garantiti" ha aggiunto Alexander. Le attività di intelligence elettronica svelati dal datagate riguardano la raccolta da parte della Nsa di una enorme mole di dati, realizzata partendo dalle registrazioni di conversazioni telefoniche e tracciati sull'uso di server con base negli Usa da parte stranieri sospettati di legami col terrorismo.

Le dichiarazioni rese dal capo della Nsa al Congresso giungono poche ore dopo l'intervista rilasciata da Barack Obama alla rete pubblica Pbs, nel corso della quale il presidente americano ha a sua volta difeso la raccolta dei dati da parte della Nsa, definita "trasparente", ha sottolineato l'importanza della lotta al terrorismo ma anche la necessità di garantire "la privacy di tutti".

Prima che Keith Alexander prendesse la parola, i leader della Commissione Intelligence, il repubblicano Mike Rogers e il democratico Dutch Ruppersberger, hanno a loro volta difeso con vigore il programma di sorveglianza elettronica del governo, perché "legale e fondamentale nel contrasto al terrorismo".

Rogers e Ruppersberger hanno inoltre criticato la fuga di notizie sul programma Prism, con il repubblicano che non ha esitato a definirla conseguenza di un "comportamento criminale". "Sono tempi in cui i nostri nemici interni sono dannosi quasi quanto i nostri nemici esterni".

FONTE: repubblica.it

martedì 11 giugno 2013

Turchia, la polizia entra a Gezy Park. Erdogan: «Toglieremo gli alberi»


Il premier: «Li pianteremo altrove». Tensione ad Ankara. Blindati e cannoni si riprendono il luogo simbolo della rivolta

Erdogan non si ferma. «Toglieremo gli alberi da Gezi Park, saranno ripiantati in un altro posto» ha detto il premier turco davanti al gruppo parlamentare del suo partito. E a conferma di questo annuncio, le forze dell'ordine hanno intensificato le operazioni. Decine di poliziotti in tenuta antisommossa sono infatti entrati nel Gezi Park di Istanbul, cuore della rivolta contro il premier Erdogan. Stamani la polizia aveva già occupato piazza Taksim, rimuovendo le barricate. Decine di poliziotti con l'appoggio di blindati con cannoni ad acqua, avevano attaccato le barricate intorno alla piazza, facendo un uso massiccio di lacrimogeni per disperdere i pochi manifestanti sul posto.

BARRICATE - Al termine di una mattinata di scontri a distanza, con lanci di lacrimogeni e copioso uso di idranti, la polizia si era attestata intorno al monumento che campeggia al centro di piazza Taksim. Il grosso dei manifestanti era invece accampato a ridosso del parco Gezi. Poi l'ingresso degli agenti e l'esplodere di nuovi scontri.

POLIZIOTTO SPARA A MANIFESTANTE - Scontri tra polizia e manifestanti sono avvenuti anche lunedì. In un video pubblicato su Youtube e diffuso da una televisione turca, si vede chiaramente un poliziotto che durante gli scontri in una via della capitale, apre il fuoco contro un giovane manifestante. Il ragazzo sarebbe ora ricoverato in gravi condizioni all'ospedale.

«IL WEB FA PIÙ DANNI DI UN'AUTOBOMBA» - Fin dal primo giorno della rivolta di OccupyGezi, lo stesso Erdogan si era espresso in termini molto critici nei confronti dei social media, di Twitter e dei nuovi strumenti di comunicazione «colpevoli» a suo dire di offrire una versione distorta della realtà. Gli esponenti del suo partito, Giustizia e Sviluppo (Akp) ci vanno anche più pesante. Una «piaga», uno strumento di «cospirazione», un ostacolo alla «serenitá e alla pace sociale» e ora anche una minaccia «più grave di un'autobomba», così ad esempio definisce il web Ali Sahin, vice presidente del partito, oltre che responsabile dei media e delle pubbliche relazioni. A suo giudizio, «c'è bisogno di nuove regole per mettere in ordine i social media, in modo che i loro utenti siano resi responsabili di quello che vi scrivono». Dichiarazioni riportate dal quotidiano Hurriyet, che ha suscitato non poche reazioni polemiche. A suo giudizio, infatti, tramite i social media i giovani che occupano piazza Taksim e Gezi Park a Istanbul stanno «cospirando» con l'obiettivo di «far cadere il governo».

FONTE: corriere.it

lunedì 10 giugno 2013

La talpa che ha rivelato il Datagate: “Tutti osservati, rischiamo dittatura. Non mi nascondo, ho detto la verità”

 
Edward Snowden al “Guardian”: «Conosco i segreti della comunità di intelligence, potrei decretare la chiusura di Prism in un solo pomeriggio»
 
Mi chiamo Edward Snowden, ho 29 anni, ho lavorato per Booz Allen Hamilton come analista infrastrutturale per la Nsa alle Hawaii e non mi nasconderò”. Inizia così il video di 12 minuti e 35 secondi nel quale Edward Snowden racconta a Glenn Greenwald del “Guardian” la scelta di rivelare l’esistenza di “Prism”, aggiungendo dettagli destinati a innescare a far sobbalzare Washington: “La Nsa osserva tutti i cittadini, rischiamo di diventare una dittatura, sono abusi inaccettabili”. E a chi dovesse immaginare ritorsioni contro di lui manda a dire: “Conosco i segreti della comunità di intelligence, potrei decretare la chiusura di Prism in un solo pomeriggio”. 
Il video girato il 6 giugno dalla regista Laura Poitras si apre con un’immagine della baia di Hong Kong per poi continuare con un’inquadratura fissa sul primo piano di Snowden. Camicia scura aperta, occhiali leggere e barba poco curata, Snowden parla con alle spalle uno specchio e una finestra coperta da tende bianche. “Sono stato ingegnere di sistemi, consigliere per la Cia e ufficiale per le telecomunicazioni” esordisce, spiegando così la scelta di rivelare l’esistenza dell’imponente sistema di sorveglianza elettronico della National Security Agency: “Quando si hanno incarichi come quelli che ho ricoperto si è esposti a molte più informazioni rispetto alla media dei dipendenti, si vedono cose che disturbano e quando le si vedono tutti i giorni ci si rende conto che si tratta di abusi e, con il passare del tempo, si sente l’obbligo di parlarne perché queste cose devono essere decise dal pubblico e non dal governo”. “Il pubblico ha diritto ad una spiegazione su quanto sta avvenendo - aggiunge - e sono pronto a sostenerlo in qualsiasi sede, non sto cambiando i fatti, li descrivo per come sono, sta poi al pubblico decidere in proposito”.

Sul funzionamento di Prism, spiega che “Nsa e la comunità di intelligence cercano informazioni ovunque possibile” ma “mentre in passato avveniva solo all’estero adesso si ripete sempre di più anche all’interno degli Stati Uniti”. In particolare “la Nsa controlla ogni individuo perché raccoglie le informazioni su tutti e le immagazzina per un certo periodo di tempo perché è il modo più semplice per raggiungere i propri fini” ovvero svolgere delle indagini in presenza di sospette minacce. “Ogni analista di alto livello, come ero io, in ogni momento può mettere chiunque sotto controllo ovunque - sottolinea parlando all’intervistatore - e dunque potevo mettere sotto sorveglianza lei, il suo commercialista, un giudice federale e perfino il presidente degli Stati Uniti”. Snowden non cela le difficoltà che lo aspettano, si dice sicuro “che non tornerò mai a casa”, fa sapere che “forse chiederò asilo all’Islanda” e ritiene che “cercheranno di catturarmi con una rendition, direttamente o attraverso un altro Paese” riferendosi con sarcasmo “all’ufficio della Cia che abbiamo qui nel consolato di Hong Kong e che immagino nelle prossime settimane avrà molto da fare”

. “Questi pericoli mi accompagneranno per il resto della vita, non può essere altrimenti dopo aver sfidato il più potente servizio di intelligence del mondo, se mi vogliono prendere prima o poi ci riusciranno ma è un prezzo che accetto di pagare perché ho scelto di vivere liberamente, stando a posto con la coscienza”. Ciò che lo preoccupa è l’”esistenza di un’architettura di oppressione destinata a diventare sempre peggio” e dunque aver contribuito a divulgarla è una maniera per rimettere le sorti dell’America “nella mani dei cittadini”. Il motivo della pericolosità di Prism è che “anche se non hai fatto nulla di male vieni osservato e registrato, ogni anno la capacità di immagazzinare dati aumenta di molto fino al punto che basta una chiamata ad un numero errato per consentire all’intelligence di scavare nel tuo passato ed esaminare ogni decisione che tu hai fatto, identificare ogni amico con cui hai parlato”. Nella parte finale dell’intervista Snowden spiega la decisione di rifugiarsi a Hong Kong: “La Cina non è un nemico degli Stati Uniti, non siamo in guerra, siamo piuttosto i migliori partner commerciali l’uno dell’altro, e in particolare Hong Kong ha una grande tradizione di protezione della libertà di parola, qui gli abitanti scendono in pazza per farsi sentire e Internet è senza filtri come altrove in Occidente, e il governo è indipendente dalla Cina, dove invece esistono limitazioni alla libertà di espressione”. Snowden rimanda al mittente il sospetto di aver disertato a favore di una nazione avversaria degli Stati Uniti: “Chiunque con le competenze tecniche che avevo poteva vedere dei segreti sul mercato o passarli alla Russia, che tiene sempre una porta aperta proprio come facciamo noi, avevo accesso all’intero organigramma della Nsa, della comunità di intelligence e degli informatori segreti nel mondo, avevo l’elenco delle nostre stazioni segrete con i relativi incarichi, se avessi voluto davvero nuocere agli Stati Uniti avrei potuto decretare la fine del sistema di sorveglianza in un pomeriggio ma non era questa la mia intenzione”.

“Vivevo da privilegiato, in un posto meraviglioso come le Hawaii, guadagnando tonnellate di denaro, cosa mi ha spinto a lasciare tutto questo? La risposta è il timore che dopo tali rivelazioni non sarebbe cambiato nulla, che nessuno si sarebbe battuto per cambiare la situazione”. L’unica cosa che a suo avviso può modificare il sistema di sorveglianza Prism sono “le politiche che lo governano” perché “neanche gli accordi con altri Stati sono altrettanto efficaci” e senza un intervento dei cittadini “rischiamo di diventare una tirannia”.

FONTE: Maurizio Molinari (lastampa.it)

giovedì 6 giugno 2013

Turchia, muore poliziotto ad Adana. Erdogan: "Avanti, elimineremo parco"


Non si placano le proteste contro il premier, che da Tunisi conferma l'intenzione di proseguire con il progetto di abbattere gli alberi di Gezi Park. In serata atteso il rientro in patria. L'agente caduto da un ponte, nel sud del Paese, mentre inseguiva un gruppo di manifestanti. Arrestati ieri 11 stranieri: secondo la stampa locale 4 sono studenti Erasmus

Un poliziotto turco è rimasto ucciso durante le proteste antigovernative nella provincia meridionale turca di Adana: è la prima vittima tra le forze dell'ordine da quando una settimana fa sono iniziate le manifestazioni contro il premier Recep Tayyip Erdogan.

L'agente è morto in ospedale per le ferite riportate durante gli scontri: secondo quanto riferito dai media locali Mustafa Sari era rimasto gravemente ferito dopo essere caduto da un ponte mentre inseguiva un gruppo di manifestanti.

E' grande l'attesa per il rientro il patria, previsto per questa sera, del primo ministro Erdogan, di ritorno dal viaggio diplomatico in Maghreb. Le proteste, intanto, non si placano. Anche ieri pomeriggio decine di migliaia di persone hanno manifestato in molte città del Paese, e nella notte ci sono stati nuovi duri scontri ad Ankara fra polizia e manifestanti.

Parlando a Tunisi, il premier ha detto che le proteste non fermeranno i piani di ridisegnare piazza Taksim. Proprio l'ipotesi della rimozione degli alberi di Gezi Park, adiacente alla centralissima piazza di Istanbul, ha dato il via alle proteste di piazza. E ha accusato membri di un'organizzazione terroristica di aver partecipato alle manifestazioni che da giorni animano il Paese. Parole destinate ad infiammare ancora di più gli animi. 

Mentre Erdogan era in viaggio, il presidente Abdullah vicepremier Bulent Arinc hanno tentato di avviare un dialogo con i manifestanti per calmare le acque. Lasciando la Turchia lunedì Erdogan - che durante il week end fra l'altro aveva detto che le decine di migliaia di manifestanti erano "4 o 5 vandali"  - aveva definito twitter "una cancrena".

Alle manifestazioni si sono ora associati anche due grandi sindacati di sinistra, il Kesk e il Disk. La polizia turca ha arrestato ieri 11 manifestanti stranieri accusati d'incitare ai disordini. Secondo il quotidiano Radikal si tratta di quattro americani, due inglesi, due iraniani, un indiano, un francese e un greco. Almeno quattro sono studenti in Turchia nel quadro del programma Erasmus.

Dall'inizio delle proteste contro il premier Erdogan hanno perso la vita tre giovani manifestanti e oltre 4mila, secondo l'associazione dei medici turchi, sono stati feriti.

FONTE: repubblica.it

mercoledì 5 giugno 2013

Statali, stop a rinnovi e indennità: persi 6 mila euro in cinque anni



I conti, nelle tasche dei dipendenti pubblici, li hanno fatti i sindacati. E sono conti al ribasso, aggiornati dal blocco dei contratti, peraltro ribadito dal ministro della Funzione Pubblica, Giampiero D’Alia. Seimila euro persi in cinque anni per mancati aumenti di stipendio. Gli anni che vanno dal 2010 al 2014, cioè quelli relativi a tutto il periodo di stop della contrattazione e delle indennità. Come dire che in un lustro, i tre milioni di statali, dovranno rassegnarsi a veder ridotte le proprie retribuzioni di 240 euro al mese. Secondo le organizzazioni sindacali, alla fine del prossimo anno mancheranno all’appello almeno 10 punti di potere di acquisto.

I CONTI
Un conto salatissimo pagato alla crisi e alla spending review, ma che potrebbe risultare ancora più pesante se solo si prendesse in esame, più in dettaglio, la dinamica contrattuale. Vero è che lo stop riguarda il quinquennio 2010-2014, ma in effetti il blocco si prolunga almeno dal 2008-2009, biennio in cui avvennero gli ultimi rinnovi. Aggiungere i due-tre anni, ai cinque di blocco in atto, significa arrivare a quota otto. Non è finita. Secondo l’Istat, quindi l’istituto principe che si occupa di statistiche, i tempi medi per rinnovare i contratti nel pubblico e nel privato variano tra i ventiquattro e i trenta mesi. L’ultima promessa - anzi, una speranza - del ministro, Gianpiero D’Alia, parla di un possibile sblocco dei contratti per il 2015. Ma la firma potrebbe non arrivare prima del 2017-2018. Risultato finale: i dipendenti statali rischiano di ritrovarsi con i nuovi contratti e quindi i nuovi aumenti (se ci saranno) a distanza di dieci anni dalla firma sui vecchi. Prospettiva assolutamente non incoraggiante per una categoria che, a torto o a ragione, si è sentita spesso bistrattata. Comunque presa di mira per inefficienza e scarso attaccamento al servizio.

I sindacati sentono che la platea degli iscritti è irrequieta. E hanno deciso di riaprire il confronto con il governo, per ora con un atteggiamento soft, ma non è escluso che la possibile indisponibilità dell’esecutivo (conseguenza della mancanza di risorse) possa far maturare prese di posizione via via più rigide. Fino a sfociare in aperto conflitto. Nelle settimane scorse era stato il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, a preannunciare la volontà ferma di riaprire con il nuovo esecutivo il tema del blocco dei contratti pubblici: «E’ una delle nostre priorità». Che tocca anche quella degli organici. Sventato, al momento, il pericolo dei tagli, è un fatto che il personale è continuato a calare negli anni, a partire dal 2008. Tra il 2008, appunto, e il 2011 gli impiegati statali sono diminuiti di quasi 154.000 unità (circa il 5%) passando da 3.436.000 a 3.247.000. E nel 2012 la cura dimagrante è proseguita. Facile immaginare che il trend proseguirà.

I DIPENDENTI
Il settore più numeroso è quello della scuola con un milione di dipendenti, seguito da quello della sanità con oltre 600.000. Poi Regioni e autonomie locali (488.000). Più di 300.000 gli uomini delle forze dell’ordine, quasi 120.000 quelli delle forze armate. Nella magistratura sono impiegate 10.000 persone, nelle università circa 90.000, nella ricerca 20.000. E’ la Lombardia la regione con il maggior numero di dipendenti pubblici: 406.000. Al secondo posto il Lazio con 401.000. Ma proprio il Lazio ad avere il maggior numero di impiegati (12,35% ).

FONTE: Luciano Costantini (ilmessaggero.it)