domenica 4 ottobre 2015

La maledizione di Obama: ora il ritiro entro il 2016 diventa quasi impossibile

Il presidente punta a finire il mandato senza truppe al fronte. Giovedì vertice dell’Alleanza per decidere la nuova strategia

I tempi e i modi del ritiro americano dall’Afghanistan non sono ancora stati decisi in maniera definitiva. Lo hanno detto a fine settembre fonti autorevoli dell’amministrazione Usa, parlando con gli alleati della Nato, in vista della riunione ministeriale dell’Alleanza in programma l’8 ottobre. A questo incontro parteciperà il capo del Pentagono Carter, che visiterà pure l’Italia il 5 e 6 ottobre, e approfitterà dell’appuntamento di Bruxelles per discutere anche l’impegno futuro nel paese asiatico ormai in guerra da 14 anni.  

Il presidente Obama ha espresso la volontà di completare il ritiro entro la fine del suo mandato, cioé nel dicembre del 2016, ma il tragico errore commesso con l’ospedale di Medici Senza Frontiere dimostra perché questo obiettivo potrebbe diventare impossibile. Gli aerei americani, infatti, stavano bombardando per aiutare le forze armate afghane a riprendere Kunduz, la città più grande mai riconquistata finora dai talebani. La causa dell’incidente, dunque, prova quanto sia reale il rischio di ripetere l’errore commesso in Iraq, dove il ritiro affrettato delle forze Usa ha consentito all’Isis di riempire lo spazio lasciato vuoto dal governo sciita di Baghdad. Nello stesso tempo, però, l’incidente aumenterà le pressioni a favore del disimpegno americano, complicando anche le relazioni col nuovo presidente Ghani, che si era nuovamente schierato con Washington dopo i tentennamenti finali del suo predecessore Karzai, e aveva chiesto e ottenuto di ritardare il ritiro della coalizione internazionale guidata dagli Usa. 
Il programma in bilico
Secondo il calendario previsto dalla Casa Bianca, le truppe americane dovevano scendere dai 32.000 uomini del 2014 ai 9.800 di oggi, riducendosi ancora della metà entro la fine del 2015. Il numero poi si doveva azzerare con la conclusione del mandato presidenziale. A marzo, proprio su richiesta di Ghani, Obama aveva rallentato il ritiro, e anche l’Italia aveva risposto in maniera positiva continuando il proprio impegno nella zona di Herat.  
La richiesta di Ghani aveva due motivi: primo, evitare che la partenza della coalizione aprisse le porte dell’Afghanistan alla riconquista da parte degli estremisti, che avevano ospitato gli organizzatori degli attentati dell’11 settembre 2001; secondo, dare credibilità ai tentativi di fare un accordo di pace con i talebani, che erano già in corso segretamente nei paesi del Golfo. 
La strategia talebana
Il recente annuncio della morte del Mullah Omar ha cambiato in buona parte le carte in tavola, spingendo la fazione più intransigente del gruppo a disconoscere le trattative per la convivenza col governo. Nello stesso tempo, il ritiro annunciato della coalizione ha convinto gli stessi estremisti che non c’è motivo per negoziare una soluzione politica: basta aspettare e sopravvivere fino alla fine del 2016, per poi lanciare una controffensiva tipo quella dello Stato Islamico, e riprendersi tutto l’Afghanistan scacciando il governo di Ghani. Quindi le operazioni militari sono diventate più intense e sfrontate, sotto la guida del nuovo leader Mullah Akhtar Mansour, e col sospettato aiuto dell’Iran e dei servizi deviati pakistani. 
L’assalto riuscito contro Kunduz è la dimostrazione di questa nuova strategia, e quindi era diventato indispensabile riprenderla, per evitare che i talebani prendessero il coraggio di lanciare operazioni simili anche contro altre province tipo Helmand, Kandahar o Nangarhar. Perciò le forze speciali americane sono tornate a combattere in questa città, oltre ad assistere i militari afghani e guidare i bombardamenti dell’Air Force, come quello tragicamente sbagliato sull’ospedale. Ora il problema è decidere come procedere: continuare il ritiro, esponendosi al rischio che i talebani riprendano tutto l’Afghanistan, oppure proseguire l’intervento, col pericolo di altri incidenti che infiammeranno la popolazione civile? 
Cambio di rotta
Il dilemma è stato spiegato bene al Wall Street Journal dal «chief executive» Abdullah Abdullah, che aveva visitato il giornale proprio il giorno prima della tragedia di Kunduz: «Io sono personalmente assolutamente convinto, e sono sicuro che il presidente Ghani sia della stessa opinione, che il ritiro pianificato al momento per il 2016 sia un grande rischio per noi, e per i risultati ottenuti dagli afghani e americani negli ultimi 14 anni. Nelle nostre discussioni, concordiamo tutti che è assolutamente importante avere una presenza oltre il 2016, affinché le nostre forze armate siano in grado di controllare la situazione». Dal 2001 ad oggi gli Usa hanno speso 700 miliardi di dollari in Afghanistan, e hanno perso 2.300 soldati, più oltre 20.000 feriti. Gli afghani hanno perso 13.000 militari solo negli ultimi 3 anni, più le vittime civili dei vari «danni collaterali» come quello di Kunduz. Eppure non è finita, al punto che il ritiro sta tornando in discussione anche con gli alleati europei. 

FONTE: lastampa.it



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