martedì 26 febbraio 2013

L'Europa affonda con l'Italia ingovernabile. Merkel: «Roma troverà la sua strada»


Tonfo del 4,89% in Piazza Affari. Monti convoca Banca d'Italia Volano i tassi dei Bot semestrali, spread a quota 344

L'Italia ingovernabile affonda Piazza Affari (-4,89% in chiusura) e l'Europa dei mercati finanziari. All'indomani di un voto che secondo la gran parte della stampa internazionale ha consegnato la vittoria «a populismi e false promesse» la grande speculazione è tornata all'attacco, non solo del listino milanese. Il premier uscente Mario Monti ha convocato un vertice sull' emergenza dell'economia e dei mercati a Palazzo Chigi con il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, il ministro dell'Economia Vittorio Grilli e il ministro degli Affari europei, Enzo Moavero. Al termine di due ore di confronto a palazzo Chigi, i partecipanti si sono limitati a confermare il «consueto monitoraggio» della situazione.
LA CANCELLIERA - Dalla Cancelliera Angela Merkel sarebbero arrivate (a mercati chiusi) parole rassicuranti sulle prospettive del nostro paese, da ieri di nuovo fonte di preoccupazione per tutta l'Eurozona. «L'Italia troverà la sua strada» avrebbe detto Merkel in una seduta dell'Unione (Cdu-Csu) secondo quanto riferito da uno dei partecipanti alle agenzie di stampa.
IL PRESIDENTE FED - Il presidente della Federal Reserve, la Banca centrale americana, Ben Bernanke, commentando in Parlamento l'esito del voto a Roma ha riconosciuto che «i mercati reagiscono all'incertezza in Italia».
IL FILM DELLA GIORNATA - Piazza Affari apre i battenti in profondo rosso insieme al resto d'Europa, ma è sui titoli dell'indice Ftse Mib che si accaniscono le vendite. Il tonfo raggiunge rapidamente il 5% in avvio quando le banche vengono quasi tutte colpite dalla sospensione per eccesso di ribasso. Poco dopo mezzogiorno, il secondo crollo (-4,8%) e una nuova raffica di sospensioni. Tuffo all'inferno per Intesa Sanpaolo (-10,4%) fino a che la Consob interviene con il divieto, che resta in vigore fino a mercoledì, di vendere allo scoperto i titoli della prima banca italiana. Una misura anti-speculazione che non si vedeva dai giorni più neri della crisi. Nel pomeriggio la pressione delle vendite pare leggermente allentarsi con l'indice in calo del 4% circa, mentre Intesa riduce le perdite al 7%. In chiusura l'ultimo scivolone: il ribasso alla fine è del 4,89% con le banche in maglia nera e perdite teoriche pari a 17 miliardi sull'intero listino. Spettano alle blue chip del credito i cinque maggiori ribassi: Banco Popolare e Mediolanum -10%; Intesa -8,9%, Unicredit -8,4%, Mediobanca -8,2%.
ASTA BOT - Il tema, sui mercati, è tornato ad essere l'affidabilità del debito italiano: l'asta dei Bot semestrali, primo test post-elettorale, ha fatto il pieno con rendimenti quasi raddoppiati all'1,237% dal precedente 0,731%. L'emissione, per 8,75 miliardi di euro, è stata interamente assegnata. 
L'attenzione ora si sposta sulle aste dei Btp di mercoledì.

SPREAD - Lo spread Btp/Bund, è salito fino a 350 punti per poi ripiegare leggermente a 344 in chiusura, sopra la cosiddetta quota Monti, il livello considerato gestibile (287 punti).
LA MONETA UNICA - L'euro si è indebolito contro il dollaro a 1,3063 dopo aver toccato i minimi di 1,3017 .
LE BORSE UE E WALL STREET - Nella notte Wall Street e Tokyo hanno accusato il caso italiano, e la rinnovata paura di contagio, con ribassi rispettivamente dell'1,5 e del 2,6%. Alla riapertura, la Borsa americana ha recuperato lo 0,6% sulle parole di Bernanke che ha difeso il programma di acquisto dei bond. È rimasto pesante invece il clima in Europa: Francoforte ha chiuso in calo del 2,27%; Parigi ha lasciato sul campo il 2,67%, bilancio pesante a Madrid che ha ceduto il 3,20%.

venerdì 22 febbraio 2013

I sondaggi fanno tremare i partiti. Lo scenario di una valanga grillina


Il Pd teme il calo di Monti: in Senato potrebbe essere ininfluente

Si fanno ma non si dicono. E si sfornano in continuazione. Tre alla settimana, almeno per quanto riguarda il centrosinistra. E raccontano tutti - punto in percentuale in più, punto in percentuale in meno - la stessa storia. Grillo è in salita, costante e, apparentemente, inarrestabile. Il Movimento 5 Stelle si è piazzato al secondo posto, giusto dietro il Partito democratico. La forbice tra le due forze politiche è ampia. E non colmabile, ma i dati rivelano che mentre il trend del Pd tende al ribasso, quello dei grillini, al contrario, è in rialzo.
Però non è solo questa la ragione del cruccio del centrosinistra. Non è solo questo il motivo dei pensieri bui dei dirigenti del Partito democratico. A preoccupare i vertici del Pd sono anche i sondaggi che riguardano Monti. Che aprono una prospettiva inquietante. Non è affatto detto, dati alla mano, che il listone del premier riesca a guadagnare al Senato un numero adeguato di seggi. Già, perché se Bersani non riuscirà a ottenere una vittoria piena pure a Palazzo Madama, avrà bisogno come il pane di un gruppo di sostegno montiano. Tradotto in cifre: Scelta civica dovrà ottenere almeno 15, 20 senatori. Tanti ne serviranno, in caso di pareggio, per consentire al Partito democratico di mettere in piedi un governo di centrosinistra.

Peccato che questi numeri non siano, almeno al momento, una sicurezza. I sondaggi infatti raccontano che nelle regioni chiave i montiani arrancano e non riescono a sottrarre voti consistenti al centrodestra. I dirigenti del Pd si sono guardati in faccia con un certo sconcerto, l'altro giorno, quando hanno esaminato i dati segretissimi forniti loro dai sondaggisti. Per forza. Quelle cifre hanno confermato tutti i loro timori: lì dove il Partito democratico va bene, il listone del premier è in affanno. Ergo: non è al centrodestra che il premier toglie i voti. Perciò, detto in parole povere, un Monti che non riesce a fare argine nei confronti delle truppe berlusconiane rischia di servire poco o niente al centrosinistra.

Di più, e di peggio: nelle regioni chiave, quelle in cui centrosinistra e centrodestra combattono la battaglia campale per il Senato, i montiani rischiano di essere ininfluenti. In Lombardia è testa a testa. In Sicilia pure. In Veneto Bersani e i suoi alleati perdono senza possibilità di sorprese dell'ultima ora, mentre in Campania la vittoria è saldamente nelle loro mani e di lì non si sposterà. Ebbene, in queste regioni Monti rischia di non fare comunque la differenza. Il che significa che tutti i calcoli che sono stati fatti finora al Partito democratico vanno rivisti.

«Non avremo mai il mito dell'autosufficienza: i problemi del Paese sono gravi e non si può pensare di risolverli governando con il 51 per cento»: erano queste, fino a qualche settimana fa, le parole che Bersani amava ripetere in tutti i suoi conversari con amici, collaboratori e compagni di partito. Il segretario pensava al Professore, ovviamente. E al suo movimento. E nel Pd si ragionava sulle poltrone da affidare ai cosiddetti centristi. Quella della presidenza del Senato in primis, che un giorno spettava a Monti e quello dopo a Casini. Ma soprattutto quella del Quirinale. Ora è «tutto da rifare», come avrebbe detto Gino Bartali. Per questo Bersani ha lanciato l'occhio sui grillini.

«Nessuna apertura - spiega il segretario, pragmatico come sempre - ma, comunque andranno le elezioni, loro saranno in Parlamento. Perciò, come sta già accadendo in altre regioni dove governiamo, ci rivolgeremo a tutti, e quindi anche a loro. Porteremo i nostri provvedimenti in Parlamento e in quella sede ci confronteremo con le altre forze politiche, grillini inclusi». È un ragionamento, quello di Bersani, che non fa una piega, stando alle dichiarazioni di D'Alema e Renzi. Solo gli ex ppi frenano. Rosy Bindi continua a sparare a palle incatenate contro il comico genovese e Beppe Fioroni spiega: «Grillo è di destra, quella è la sua cultura, quella è la sua deriva e noi con lui non c'entriamo proprio nulla». Un segnale all'indirizzo di Bersani? Già, ma anche di quel Romano Prodi che, stando alle voci dei palazzi della politica, punterebbe sull'apporto dei grillini per arrivare al Quirinale.

lunedì 11 febbraio 2013

Il fenomeno dei corsi online. “In classe siamo 85 mila”

 
Un gruppo di ragazzi pachistani, studentesse di Manila, un giovane nigeriano. Come me, tutti matricole alle lezioni di uno dei più prestigiosi atenei via web
 
La prossima idea che cambierà il mondo stavolta potrebbe non nascere in un garage della Silicon Valley. Il nuovo Steve Jobs o Larry Page può essere uno dei ragazzi pachistani che si ritrovano a studiare insieme nella caffetteria di un Ikea nei sobborghi di Londra, «perché c’è spazio e la connessione al web è molto veloce».

O una delle ragazze di Manila che hanno creato un gruppo di studio filippino su Facebook dove si scambiano idee e appunti. O magari è Yusuf, 26 anni, un veterinario della Nigeria che scalpita per creare una sua azienda e giura di avere in mente una start-up che sarà «un successone».

La geografia li considera lontanissimi gli uni dagli altri, ma sono tutti compagni di classe. Frequentano insieme un corso universitario che si intitola «Sviluppo di idee innovative per nuove aziende», tenuto dal professor James V. Green, docente di Economia all’Università del Maryland. Quella di Green è una classe multietnica e senza dubbio affollata: c’è Yusuf, ci sono i pachistani di Londra, ci sono le ragazze filippine, ci sono io, giornalista italiano, e con noi ci sono altri 85.000 studenti di ogni parte del mondo.

Non uno dei 193 Paesi membri dell’Onu sembra mancare nella classe in cui il professore americano insegna a lanciare un’impresa di successo. Benvenuti alla nuova frontiera dell’educazione globale. O se preferite, come dice Thomas Friedman nell’analisi qui sotto, benvenuti nella «rivoluzione» dei MOOC (Massive open online course), la sigla che definisce le realtà universitarie che permettono la distribuzione via web di educazione di qualità a chiunque. Gratis.

Il fenomeno sta decollando a un ritmo impressionante. Coursera.org, la piattaforma accademica che ospita anche le lezioni del professor Green, è nata solo otto mesi fa e già conta 2,5 milioni di iscritti, ai quali offre corsi di 33 atenei prestigiosi come Stanford, Columbia, Duke, Brown, MIT o Princeton. Altre realtà analoghe come Udacity o edX (un consorzio che fa capo ad Harvard) stanno sviluppando offerte analoghe. L’idea è distribuire gratuitamente a chiunque sappia parlare inglese corsi universitari finora riservati a chi può permettersi rette da 40 mila dollari l’anno.

I corsi prevedono scadenze e test da rispettare: alla fine viene rilasciato un certificato a cui presto le università americane riconosceranno un valore in termini di credits. Si possono frequentare corsi gratuiti a scelta, senza limiti. La speranza dei campus è stimolare la «fame» di sapere con un aperitivo accademico, per raccogliere nuovi iscritti.

Entrare in una di queste università online è semplice come iscriversi a Facebook. «La Stampa» ha fatto la prova su Coursera. Il primo passo è creare un profilo, analogo a quello che molti di noi hanno già sul web: età, nazionalità, una foto, una breve descrizione e i link alle pagine personali su Twitter, Facebook, G+ e soprattutto LinkedIn, il social media per condividere esperienze di lavoro e di studio.

In cinque minuti ti scopri «matricola» in un campus delle meraviglie, dove c’è l’imbarazzo della scelta per chi ha voglia di studiare. In questo momento Coursera offre 221 corsi gratuiti di ogni genere. Volete capire gli algoritmi sotto la guida di due professori di Princeton? Siete ancora in tempo, il corso è partito il 4 febbraio e dura sei settimane. Vi interessa approfondire il tema (attualissimo) dell’ingegneria finanziaria e del risk management? Tre professoroni della Columbia sono vostri per dieci settimane. E ancora: introduzione al pensiero matematico, principi di macroeconomia, studio dei «big data».

C’è pane anche per i denti degli umanisti. Immaginate cosa significa per un ragazzo di un paese in via di sviluppo studiare gli antichi greci con un professore della Wesleyan University, come se fosse con lui nel campus del Connecticut.

Individuato il corso, si entra in classe. A noi 85 mila studenti del professor Green è richiesto di seguire 5-6 video lezioni alla settimana (si può accedere a qualsiasi ora del giorno o della notte, a prescindere dai fusi orari), scaricare le slides del docente, rispondere a mini-quiz durante la lezione e a test settimanali di verifica tipici del sistema americano: risposte multiple, «vero o falso» e brevi elaborati. Lezione dopo lezione, Green guida la sua platea planetaria alla scoperta della mentalità imprenditoriale e dei processi di scelta, insegna a preparare un business plan e una strategia di marketing di base.

Parlando dal suo ufficio in Maryland, offre a ragazzi africani o asiatici esempi presi dal mondo reale, spiegando come funziona la rete di vendite di Amazon o come la Ferrari riesce a creare aspettative e desideri legati alle sue auto. Infine offre informazioni preziose su come raccogliere capitale per una start-up e come disegnare strategie di crescita.

Manca ovviamente il contatto umano di un tradizionale ambiente universitario. L’alternativa qui sono i forum di discussione, che nascono spontaneamente per provenienza geografica o linguistica. Gruppi di studio in ogni idioma, italiano compreso. Sono pochi però i cinesi, a testimonianza della difficoltà di vivere liberamente la Rete in Cina. E per chi vuole comunque incontrare gli altri e studiare insieme, si ricorre ai Meetup - gruppi di chi condivide interessi comuni - e ci si incontra in una caffetteria di Starbucks, una biblioteca o anche all’Ikea.

Lo spirito con cui gli studenti partecipano non è diverso da un campus tradizionale. Ci sono quelli che si lamentano per i voti, quelli che criticano lo stile d’insegnamento e chi ha problemi con i video «difficili da caricare». Ma la maggior parte è d’accordo con Yusuf, il veterinario nigeriano: «Nonostante molti pensino il contrario, la verità è che non c’è mai stata un’epoca come questa nel mondo per far diventare realtà i nostri sogni».

FONTE: Marco Bardazzi (lastampa.it)

giovedì 7 febbraio 2013

L'Italia e il conto amaro dell'Europa. Un saldo negativo per 22 miliardi

 
Il bilancio degli ultimi 5 anni, i rischi del negoziato di giovedì. Nel 2005 strappammo all'ultimo 1,4 miliardi per i «Fondi strutturali»

Nelle notte del 16 dicembre 2005, sotto gli occhi di Tony Blair, presidente di turno del Consiglio europeo, e di Angela Merkel, Silvio Berlusconi pensò, probabilmente, di aver limitato il danno. Il bilancio europeo aumentava di poco, ma andava diviso tra gli otto Paesi dell'ex blocco sovietico, più Cipro e Malta. Anzi, all'ultimo minuto, la delegazione italiana aveva addirittura strappato 1,4 miliardi extra per i «Fondi strutturali» (investimenti per le aree più svantaggiate) e altri 500 milioni per lo sviluppo rurale.


La medicina europea, però, ha due caratteristiche: può essere amara se non si regge il confronto negoziale con i partner più forti e soprattutto agisce con rilascio lento, differito nel tempo. Oggi, in piena trattativa sulle «prospettive finanziarie» per il 2014-2020, fa testo una tabella che si può costruire elaborando i dati ufficiali diffusi dalla Commissione europea. L'Italia dal 2007 al 2011 ha già lasciato in Europa 22 miliardi di euro, solo due meno della Francia, che ha però un reddito nazionale superiore di un quarto al nostro, e di cinque miliardi in meno rispetto al Regno Unito (che ha un Pil maggiore del 10%). Ventidue miliardi in cinque anni, una cifra più o meno equivalente al gettito atteso dall'Imu, tanto per avere un ordine di grandezza: oggettivamente non è un bel risultato. Tanto più se si considera che la struttura del bilancio europeo, nonostante sforzi e tentativi di cambiamento ormai ventennali, si adatta ancora bene a un Paese come l'Italia. Due grandi voci che coprono circa il 91% delle uscite (budget 2011): agricoltura e «crescita sostenibile», cioè i fondi di coesione per le zone arretrate.

E allora chi meglio di noi? Certo la Polonia, l'Ungheria e gli altri «nuovi» dell'Est. Ma perché la Francia? Perché, volendo andare fino in fondo, la Spagna? Quando il presidente Nicolas Sarkozy assunse la guida a rotazione dell'Unione Europea si presentò davanti al Parlamento europeo di Strasburgo il 10 luglio 2008 come il «nemico dell'immobilismo» e volle cominciare dal bilancio, proprio come aveva fatto Tony Blair parlando, invece, nell'Aula parlamentare di Bruxelles il 23 giugno 2005. Fa impressione rileggere oggi quei due discorsi di insediamento tanto sono simili: liberaldemocratico e modernista il francese; socialista liberale e modernista il britannico. Tutti e due chiedevano di spendere di più nella ricerca, nell'innovazione, nella «competitività» e meno nei programmi di assistenza o di conservazione dell'esistente.

Dopo di che, messe da parte le belle parole, contano le azioni politiche quasi sempre fedelmente tradotte dai numeri. Così i governi dell'era Sarkozy hanno mandato a Bruxelles negoziatori con in testa solo una cosa: tutelare i fondi a disposizione dei contadini francesi, compresi i grandi latifondisti. E i rappresentanti di sua Maestà, anche dopo Blair, evidentemente più che della «modernizzazione» si sono preoccupati di difendere l'arcaico «rebate», il rimborso dei contributi ottenuto nel 1984 da Margaret Thatcher. E l'Italia? Anche per effetto dell'accordo del 2005, i governi di Romano Prodi e poi (dal maggio 2008) ancora di Berlusconi si sono visti raddoppiare in un anno il conto di Bruxelles. Nel 2007 il «saldo operativo» tra versamenti (escluse le spese per l'amministrazione) e fondi provenienti dalla Ue era ancora fermo a 2 miliardi di euro. Meno della Germania (7,4), della Francia (2,9), del Regno Unito (4,1), persino meno dell'Olanda (2,8). Nel 2008, invece, eccoci proiettati al secondo posto della classifica dei «contributori netti» della Ue. L'Italia già in crisi, l'Italia indebitata, l'Italia della crescita asfittica, usciva ammaccata anche dalle cifre sul bilancio europeo: il «saldo operativo» toccava 4,1 miliardi di euro proiettandoci al secondo posto nella classifica dei contributori netti, dietro la Germania (8,7) e davanti a Francia (3,8) oltre a Olanda (2,6) e Regno Unito (0,8). Da lì in poi, nel giro di altri tre anni, il «saldo operativo» è salito fino a 5,9 miliardi del 2011: in termini relativi abbiamo recuperato sulla Francia (6,4 miliardi), ma siamo ancora alle spalle del Regno Unito (5,5 miliardi)

In valori assoluti i versamenti sono passati dai 14,02 miliardi del 2007 ai 15,1 miliardi del 2008 (in questo calcolo, invece, è compresa anche la voce legata all'amministrazione). E dal 2008 al 2011 i contributi sono aumentati di altri 900 milioni, toccando quota 16 miliardi nel 2011. Gli incassi europei hanno viaggiato sulla corsia di marcia opposta, scendendo dagli 11,3 miliardi del 2007 ai 9,5 miliardi del 2011.

Questi sono i rapporti di forza (o se si preferisce le capacità negoziali) alla vigilia del Consiglio europeo del 7 e 8 febbraio, dove si tornerà a trattare sul bilancio per il periodo 2014-2020. E allora, meglio tenere d'occhio la sostanza. Per esempio, la rampante e ambiziosa Spagna di Luis Rodriguez Zapatero non ha mai mollato la presa sui fondi europei. Tanto che, Polonia o non Polonia, nello stesso periodo in cui l'Italia cedeva 22 miliardi, ha portato a casa un saldo in positivo per un valore di 14,5 miliardi. Adesso la Commissione europea propone, tra l'altro, di destinare, in sette anni, 80 miliardi in più per ricerca e innovazione e di orientare 84 milioni per sostenere disoccupati e nuove povertà. Benissimo, ma attenzione a chi rimane con l'assegno in mano.

FONTE: Giuseppe Sarcina (corriere.it)

mercoledì 6 febbraio 2013

Pochi, bravi e dimenticati Sono gli scienziati d’Italia


Sempre più surcalssati dalle performances delle altre nazioni


I temi della ricerca e dei relativi investimenti, del rapporto tra scienza, innovazione e sviluppo sono entrati stabilmente nell’agenda politica e nella discussione pubblica. A parole tutti ne riconoscono l’importanza; più difficile - com’è noto - è tradurre in pratica queste buone intenzioni. La nuova edizione dell’«Annuario Scienza e Società» di Observa Science in Society, pubblicato da il Mulino a cura di Federico Neresini e Andrea Lorenzet, offre una preziosa occasione per fare il punto della situazione sulla base dei dati più aggiornati. 
Partiamo dai dati che più spesso vengono citati per lamentare l’arretratezza del nostro Paese: la quota di Pil dedicato a ricerca e sviluppo e il numero di ricercatori per mille occupati. In entrambi i casi qualche minimo progresso c’è stato: tra il 2010 e il 2012 la percentuale di ricchezza nazionale dedicata a ricerca e sviluppo è passata dall’1,1% all’1,3%; nello stesso periodo i ricercatori sono passati da 3,6 a 4,3 su mille occupati. Il problema è che nello stesso periodo la «concorrenza» è stata tutt’altro che immobile: la Danimarca, tanto per fare un esempio, è passata dal 2,6% di investimenti al 3,1%; la Corea dal 9,5 all’11,1. 

Resta poi il fatto che in quasi tutti i Paesi in testa a queste «classifiche» un ruolo rilevante sia giocato da investimenti e ricercatori del settore privato (in Corea lavorano in azienda tre ricercatori su quattro, il doppio che da noi!). Insomma, la litania sul ritardo italiano deve fare i conti, oltre che con i noti vincoli di spesa pubblica, con un tessuto produttivo che per ragioni ben note (dimensione delle imprese e cultura imprenditoriale) appare strutturalmente poco compatibile con rilevanti investimenti umani e finanziari in ricerca. E’ indubbio che sarebbe auspicabile avere più ricercatori, ma servirebbe anche un contesto appropriato per valorizzarli: altrimenti si rischia di ragionare come quel personaggio di Alan Ford che distribuiva gioielli in un quartiere malfamato, illudendosi che questo bastasse a elevarne il benessere.  

Meno noti sono due dati sulla composizione del nostro personale di ricerca, ma che forse meriterebbero maggiore attenzione anche da parte delle istituzioni. Su tutto infatti si può discutere, ma per presenza femminile e quota di docenti giovani le nostre università risultano agli ultimi posti in Europa: poco più di una donna ogni tre docenti (in Finlandia più di una su due), mentre solo il 17% dei docenti universitari ha meno di 40 anni (il 48% in Germania e il 60% in Turchia).  

A fronte di questi dati sorprende positivamente che i ricercatori italiani continuino a figurare in buona posizione per capacità di ottenere gli ambìti finanziamenti dello European Research Council, anche se va tenuto conto del fatto che per molti si tratta di una delle poche alternative alla riduzione di finanziamenti nazionali.  

Interessante è vedere come questo quadro si rifletta sulle percezioni dei cittadini rilevate dall’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società. Da un lato, infatti, sulla scienza convergono grandi aspettative da parte della società: dalla scienza ci si attendono soluzioni a problemi pratici, benessere e sviluppo economico; restano in secondo piano aspettative di natura culturale e di risposta alle grandi domande dell’uomo. D’altra parte, sul piano concreto, queste aspettative si scontrano talvolta con percezioni e valutazioni piuttosto critiche. 

D’altra parte, sul piano concreto, queste aspettative si scontrano talvolta con percezioni e valutazioni piuttosto critiche. Se si analizzano i giudizi dei cittadini sui soggetti che operano a vario titolo nel campo della ricerca, a essere valutati positivamente sono soprattutto le associazioni che si occupano di ricerca, università e istituti di ricerca (83%). Più di tre italiani su cinque danno anche un giudizio positivo su Unione Europea e aziende e più di uno su due sull’operato delle fondazioni bancarie in materia di ricerca. Meno positivo il giudizio sulle Regioni e in particolare sullo Stato, la cui azione nella ricerca è valutata negativamente dal 56% degli intervistati. Da notare che i laureati e chi ha buone competenze scientifiche risultano ancora più critici verso le istituzioni nazionali e le aziende. Infine, deve far riflettere, soprattutto a fronte delle grandi aspettative pratiche e di sviluppo, che quasi un italiano su due (47%) dubiti che un ricercatore finanziato dall’industria possa conservare la propria indipendenza. Una conferma che il problema non è solo nelle risorse, ma nella fragilità di una cultura della ricerca e dell’innovazione capace di valutarne potenzialità e implicazioni in modo aperto, critico ed equilibrato. 

FONTE: Massimiano Bucchi (lastampa.it)

martedì 5 febbraio 2013

Scoperta proteina che ferma la crescita delle cellule tumorali



Quando sono private di una proteina le cellule tumorali smettono di dividersi e proliferare.  

Lo ha scoperto uno studio dell’University of Pittsburgh Cancer Institute pubblicato sulJournal of Cell Science, che potrebbe dar vita a nuove terapie.  

I ricercatori hanno creato tumori “deficienti” della proteina Drp1, necessaria per la divisione dei mitocondri, le ”centrali energetiche” della cellula, osservando che queste cellule non riescono a crescere: «Una volta osservato questo fenomeno - scrivono gli autori - abbiamo cercato qualche molecola che producesse lo stesso effetto». 

La molecola, un’altra proteina chiamata Mdivi-1, è stata infine trovata, e somministrata insieme al cisplatino, un comune antitumorale, si è rivelata in grado di uccidere le cellule tumorali, almeno nei test in laboratorio. 

FONTE: lastampa.it

lunedì 4 febbraio 2013

Bella e cattiva, l’Italia spezza la Francia


Due mete capolavoro, i placcaggi di Venditti e la provocazione di Parisse

L'Italia che gioca a rugby, attacca e batte i migliori non è più utopia. L'Italia che impone le sue qualità, il suo coraggio, che non si arrende ma risponde sempre senza abbassare la testa e che vince è apparsa ieri a 60 mila testimoni increduli. L'Italia che Jacques Brunel aveva promesso un anno fa esiste. È bella, cattiva e fa i miracoli. Ribattere la Francia 23-18 con due mete che sono piccole opere d'arte, ribatterla a distanza di due anni senza se e senza ma perché era la prima partita del Sei Nazioni e i galli erano tutt'altro che distratti, demotivati, vale tanto, tantissimo.
Forse è stata la vittoria più importante, più preziosa del rugby tricolore, di sicuro è stata una dimostrazione di consapevolezza e abilità che forse solo loro, gli azzurri, si aspettavano e che di certo non si attendevano i francesi, disperati, le mani nei capelli quando Venditti piazzava l'ultimo placcaggio su Fall, lo trascinava fuori dal campo e chiudeva le ostilità. «Tante volte abbiamo giocato bene, ma alla fine vincevano gli altri - spiega Sergio Parisse, il capitano che, appena segnata la prima meta, ha messo l'indice davanti alla bocca, rivolto ai francesi: silenzio, prendetevi questa -. Quante volte ho detto, abbiamo detto, prima di una partita: domani possiamo vincere. Pochi ci prendevano sul serio, qualcuno sorrideva. Da oggi, magari, sarà diverso. In fondo non siamo tanto male, no?».
No, non è male per niente questa Italia che aggredisce la partita con una furia insospettabile, che controlla la palla per cinque minuti filati e colpisce con Parisse dopo una magnifica intuizione di Orquera. Non è male per niente questa Italia perfetta per i primi 25 minuti. Che concede una meta a Picamoles ma raccoglie punti ogni volta che entra nella metà campo avversaria (drop e piazzato di Orquera). È indistruttibile questa Italia che va sotto nel finale del primo tempo, per un calcio di Michalak e la meta di Fall. È quello il momento più difficile, il momento dei dubbi.
Gli azzurri hanno tenuto ritmi folli, all'improvviso sembrano svuotati. E sembra che l'utopia debba rimanere tale anche questa volta, perché la Francia si impadronisce della palla e dell'inerzia, allunga con un'altra punizione e sul 13-18 comincia a respirare, convinta di avercela fatta.
Ma questa è un'altra Italia. Entra Gori per Botes e il ritmo si rialza, i placcaggi tornano feroci, la storia della partita ricomincia daccapo. A 25 minuti dalla fine, Venditti recupera un pallone nei 22 azzurri e non calcia, comincia a correre.
Poi tocca a Parisse bruciare altri metri, poi è il turno di Gori e, a ridosso della linea francese, a 80 metri dal primo scatto di Venditti, Orquera mette il pallone tra le mani a Castrogiovanni, che spiana l'ultima barriera. Un minuto dopo il drop di Burton, poi è resistenza. Fino all'ultima mischia, quando Cittadini dice a Zanni prima di abbassare la testa: «Niente scherzi, qui si fa l'Italia o si muore». Fino all'ultimo placcaggio. Per un giorno la Francia siamo noi. Chapeau, monsieur Brunel.