Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fanti di marina imbarcati sulla Enrica Lexie, accusati di avere ucciso dei pescatori (nessuno parla più di pirati) pagano una serie di errori che accomuna comandante, armatore, ministro degli Esteri, Governo e anche magistratura. E non se ne vede la fine
Il caso dei Marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone dal febbraio 2012 prigionieri della problematica giustizia indiana, non ha appassionato molto, tranne lodevoli eccezioni come Mario Pirani, a sinistra, che ha lasciato alla destra il solitario compito di tutelarli come se difendere l’onore dei militari italiani non fosse cosa degna.
I due militari, Fucilieri di Marina del Battaglione San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono accusati dagli indiani di aver ucciso due pescatori indiani.
La loro vicenda credo meriti chiarimenti e considerazioni.
I chiarimenti riguardano il ruolo che rivestono i militari italiani imbarcati su navi mercantili battenti bandiera italiana, come la Enrica Lexie, di proprietà della Compagnia di trasporto marittimo Fratelli d’Amato.
Mi stupisce che qualcuno abbia avuto dubbi sull’iniziativa. È nella storia delle repubbliche marinare la predisposizione di unità militari per la difesa nelle rotte di navigazione seguite dal naviglio mercantile.
La Serenissima Repubblica di Venezia si è distinta nel corso dei secoli per aver mantenuto un potente dispositivo navale a garanzia della sicurezza delle aree marittime nelle quali navigavano le navi che trasportavano merci da e per i porti più lontani.
È, dunque, un interesse evidente dell’economia italiana che le nostre navi mercantili possano percorrere con sicurezza le rotte a rischio perché tutelate dalla nostra marina militare in vario modo, con la presenza in quei mari di unità armate o di uomini imbarcati sul naviglio civile.
A questo proposito, miei amici, reduci da una crociera mi hanno detto dell’accoglienza che, trovandosi la loro nave in acque pericolose, è stata riservata dai passeggeri, non solo italiani, ai fanti di marina imbarcati nel tratto di mare a rischio. Un’accoglienza che ha coinvolto anche i cittadini di altre nazioni.
La presenza di militari italiani sul naviglio mercantile è, dunque, doverosa.
Quanto all’intera vicenda sembra evidente che ci troviamo dinanzi ad un pasticcio che ha fatto perdere la faccia al nostro Paese.
In primo luogo perché il comportamento del comandante e dell’armatore doveva essere guidato dalle autorità militari italiane le quali avevano sconsigliato di entrare nelle acque territoriali indiane e nel porto di Kochi.
E qui c’è il problema della condizione giuridica delle acque nelle quali si è svolto l’incidente, non acque territoriali ma “Zona contigua” (24 miglia nautiche dalla costa), secondo il Maritime Zones Act del 1976, che fa parte integrante della “Zona economica esclusiva” che si estende per 200 miglia.
Su questa zona la giurisdizione penale indiana è stata estesa con atto unilaterale del codice di rito indiano.
Quale norma prevale, la norma internazionale o la normativa processuale indiana?
Non è la prima volta che ci troviamo ad affrontare un tale problema con gli stati rivieraschi mediterranei dove unilateralmente vengono ampliati i limiti delle acque sulle quali esercitare la giurisdizione. È accaduto ripetutamente con la Libia, accadeva spesso con la Croazia.
Rifuggiamo dalla prepotenza, ma in questo caso c’erano le condizioni per processare in Italia i nostri fucilieri, magari con la costituzione in giudizio dei parenti delle vittime o dell’India.
Invece abbiamo fatto una serie di figuracce, come quella della licenza dalla quale in un primo tempo si voleva che i due marò non tornassero in India nonostante la parola data, tra l’altro mettendo nei guai l’ambasciatore.
Queste vicende si risolvono trattati internazionali alla mano o in sede diplomatica. Nessuno stato avrebbe mollato suoi militari comunque in servizio. Non c’è bisogno di richiamare il caso del Cernis, quando i piloti americani responsabili di una strage i nostri giudici non li hanno visti neppure con il cannocchiale.
Occorreva una azione vigorosa, lineare con il diritto. Ad esempio perché la Procura della Repubblica di Roma non li ha imputati di un presunto omicidio, sia pure colposo e trattenuti in Italia?
Si ha l’impressione che abbiano pesato altre vicende, come quella della presunta corruzione nelle forniture di una azienda di Finmeccanica. Cose che si possono capire ma che non si possono ammettere quando è in gioco il prestigio del Paese di fronte ad uno stato, il Kerala, i cui governanti evidentemente hanno sfruttato il caso in vista delle elezioni.
Ambiguità italiote, come altre volte, a livello politico. Comportamenti che si pagano, cari.
FONTE: Salvatore Sfrecola (blitzquotidiano.it)
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